L'homme que vous voyez ci-dessous est une sorte d'Antoine Blondin italien, l'un des fondateurs de la "chronique de sport" à la suite d'amateurs involontaires comme Dino Buzzati *...Un homme qu'Umberto Eco, un intellectuel vachard et peu enclin aux folies "calcistiques", a appelé le Gadda du pauvre... Ce que j'en pense ? Beaucoup de bien, d'autant que l'équipe de ses carnets annuels m'a commandé un article il y a deux ans. Un article que j'ai dédié à mon père qui en usurpa les idées pendant si longtemps... En me penchant sur la question, il a bien fallu que je l'avoue :

"Brera, c'è l'avevo a casa".

* "Si schianta contro la basilica di Superga l'aereo che riporta in Patria i campioni d'Italia", in Il Nuovo Corriere della Sera, 5 maggio 1949

Version originale écrite en italien par Mario Morisi


UN BRERA, CE L’AVEVO A CASA

Da Mario Morisi

"1955. Le Pornichet. Bretagne. France. E una domenica grigia. Mia mamma ha sparecchiato la tavola. Il vento soffia a raffica sul lungomare. Il Gioân di casa, mio padre, Morisi, nato a Gropallo, frazione di Farini d’Olmo (Piacenza) è di cattivo umore. Sbuffa il fumo del cigarillo alzando un sopraciglio come Ancelotti quando le cose non vanno per il verso giusto. Tra le sue mani una radiolina testarda trasmette la voce di Nicolò Carosio, quando l’Inter è in affanno o quando Coppi, non più al top lotta con Van Steenberghen all’arrivo del Giro di Lombardia.

Dole. Est della Francia. 1958. Il Gioân di casa, mi fa segno di tacere. L’orecchio inchiodato a quel maledetto transistor, sembra l’Orlando furioso: L’Italia – apriti cielo ! – si fa eliminare dall’Irlanda del Nord ! "Cosa aspetta la polizia a intervenire?” puntualizza Carosio. “Quattro randellate ben date e tutto torna a posto"

1960. Nencini vince il Tour. Io tifo per Jacques Anquetil, che mi ha carezzato la testa al termine del Criterium del dopo-Tour in Normandia. “È bravo, Maître Jacques, ma non arriva alla caviglia di Coppi-Bartali-Magni-Binda-Guerra-Girardengo…”.

La gente era così, negli anni 60; recitava a memoria litanie di nomi famosi. “Combi-Monzeglio-Allemandi-Monti-Bertolini-Guaita-Meazza-Schiavio-Ferrari-Orsi, allenatore Pozzo ». Oppure, più liricamente: “Bacigalupo-Ballarin-Maroso-Grezar-Rigamonti-Castigliano-Menti-Loik-Gabetto-Valentino Mazzola-Ossola.”

Un italiano d’Italia non se lo può figurare. Si faceva fatica ad essere italiano residente all’estero all’inizio del 900’. Ti davano del “Macaroni” a Parigi e del francese nel “Bel Paese”. Se aggiungo che Papà fu espulso dalla Francia nel 1941 e dovette fare il militare per la gente da cui era sfuggito…

Un destino travagliato, dunque, quello di Giovanni Morisi, nato il 23 agosto 1920, a Groupasseù, il paesetto nelle colline piacentine dove teniamo sempre casa. Vivevamo a Nanterre, una borgata al piede del Mont Valérien, dove furono fucilati i partigiani del Manifesto Rosso : Manoukian, i fratelli Fontanot e compari.

Questo accampamento di poveracci tra villette e praterie pelate non era l’Italia, ma dell’Italia c’era il profumo di ragù che galleggiava nell’aria e sapeva di polenta e di gnocchi. Il profumo migliore proveniva dalla cantina del 157 di rue Philippe-Triaire, dove mia nonna Maria aveva il suo laboratorio segreto.


Giovanni Morisi, mon père, pauvre, avec un livre...


Come si fa a sopravvivere quando si è maltrattati e insultati, in cambio di un  pugno di fichi? — Lavorando sodo. ”Il pane dell’immigrante ha sette croste tutte più spesse l’una dell’’altra”, dichiarava mio nonno Lazzaro. Solo lavorando “come un “negher” puoi cavartela!”

Ahi, le domeniche mattine quando accompagnavo Papà al “Jambon de Parme”.  Che meraviglia il tagliare della coppa, della pancetta, del prosciutto crudo; che felicità poter comperare un pezzo di gorgonzola e del vino italiano: chianti, barbera, valpolicella !

Sono venuto al mondo qui in mezzo, fra France e Italia.

Il Gioân Morisi - o mej en dialett’ : “El Gianeïn da Moureura” - non aveva avuto un’infanzia vera e propria. Era il capo famiglia, portava la sorella a scuola, vendeva a undici anni per le strade di Parigi “L’Intransigeant”, un quotidiano popolare sparito da tempo. Lasciò la scuola a 14 anni per lavorare presso un fornaio. Poi il militare in Italia, la diserzione, un’andata-ritorno in Germania nelle squadre del lavoro forzato; un'altra fuga, la clandestinità, il mercato nero con gli italo-americani, il ritorno in cerca di pace. Infine l’incontro con Janine, mia mamma, una francesina allevata in mezzo a tante amiche italiane.

Tutto questo, vi direte, non ha nulla a che vedere con il Gioânbrerafucarlo, figlio e cantore della pianura padana, il militare paracadutista, il partigiano, quel diavolo d’un “Gadda del Popolo” che mescolava il latino, l’inglese, lo spagnolo e il suo dialetto della Bassa.

Papà, il servizio militare, anch’egli l’aveva fatto (tre mesi) nelle forze aeree. Una notte di guardia, sparò a caso senza “chi va là” e un paio di ufficiali andati a spasso ci rimisero quasi la pelle. Senza processo fu messo in cucina a preparare il caffè per i piloti.

Se Giovanni Brera fu il cantore ispirato dal Po, “Jean”, come lo chiamavano i suoi dipendenti, mi trasmise l’attaccamento ai colli del Appennino piacentino dove troneggiano Gropallo e Gropazzuolo, “Groupasseu” nel “nostr’ dialett”; dove i maiali diventano “gougneïn”, i tortellini “liuagnveïn” e un morto di fame coi capelli lunghi un “scatt’ion”.

Papà divorava romanzi di cappa e spada. Andava pazzo per le Rivoluzioni francese e russa, Giulio Cesare, Annibale e Napoleone[1]. Mi raccontava la vita di personaggi illustri tale Leonardo da Vinci e Galileo Galilei. Mi diceva : “Fiston (figliolo), non lasciarti insultare; gli abbiamo civilizzati più volte ‘sti francesi”. Sullo slancio aggiungeva: “Quando Dante, il grande Dante Alighieri, arrivò nel Senese, si perse e chiese a un contadino come raggiungere la città di Siena. Il brav’uomo gli rispose: “Varca quel fiume, scavalca quel monte, troverai Siena di fronte. Senti, Mario, senti come la nostra lingua è bella; eppure era solo un povero contadino”…

Il 13 luglio 1982, gli Azzurri capitanati da Dino Zoff vincono la terza stella in Spagna. Papà fu felice ma non così tanto: gli chiesi il perché. Mi rispose che aveva assistito alla vittoria degli Azzurri di Meazza e Piola a Colombes nel 1938 e quello sì, che fu un trionfo! Gli chiesi di raccontarmi e mi raccontò le prodezze dei ragazzi di Vittorio Pozzo. Me lo raccontò in un modo tale che mi avrebbe segnato visto che non sapevo ancora di Brera, quello che aveva imparato ad amare sulla rosea…

Quando il “Gioânmorisifumoureura” tornava da uno dei suo numerosi spostamenti, inventava per me numerosi storielle con “le Terrible Black” e “Madame Tourloulou”. Si stancava presto delle mie esigenze e si metteva a leggere due giornali strani per me che ero di lingua materna francese, vale a dire La Gazzetta dello Sport e Lo Sport Illustrato.

Lo Sport illustrato! Le copertine non erano quelle di oggi. La quadricromia era scura, con un contrasto forte che scolpiva le facce dei campioni di allora che parevano tutti minatori. In Francia avevamo giornali come Miroir Sprint e Miroir des Sports ma erano in bianco e nero, segno che noi italiani… Lo Sport illustrato dunque: il sangue sul viso di D’Agata o di Duilio Loi, le smorfie di Robic, le gambe gettate per l’aria di Angelillo… Poi La Gazzetta: il segno degli italiani all’estero; ne vedi una copia ovunque, in terrazza, sul treno, e le fai un saluto, il mondo per te è paese… io sono un figlio dello sport italiano.

Mi ricordo la prima volta che fummo in Italia: era nel lontano 1957. Il mio Anquetil aveva appena vinto il suo primo Tour. Frequentavamo i cinema sui Campi Elisi, ma Milano mi parve Nuova York e i colli piacentini la Cordigliera delle Ande! Che meraviglia le trombe della corriere sugli Appennini, lo scenario da nascita del mondo, l’ampiezza minerale del torrente Nu’ a secco…

Nel 1962 scoprii San Siro e me ne ricordo perfettamente, così come ricordo bene Fiorentina-Bologna del 1966 e Italia-Portogallo, quando “Rombo di Tuono” Riva si ruppe la tibia all’Olimpico. Ho nella testa un Milan-Vicenza: Altafini versus Vinicio, finì 4 a 1 per i rossoneri contro il Lanerossi. Fu un abbaglio. Fui rapito da questo Oceano di colori e di fraternità popolare sugli spalti.

Quando vidi giocare Gianni Rivera dal vivo, divenni milanista a prima vista. “L’Abatino” era altrettanto bello come il Duomo. Lasciando L’Equipe, mi misi a comperare la Gazzetta con i miei soldini e diventai un tifoso sfegatato degli azzurri, dall’atletica leggera al badminton.

Papa tifava Inter e Peppin Meazza, “le plus grand joueur de tous les temps”. Rivera non era male ma troppo fragile. Una mattina che mi portava ad allenarmi, mi disse che “era più fumo che arrosto”. Poi puntò il ditto su un articolo della Gazzetta che li dava ragione, un pezzo firmato Brera…Era solo l’inizio. Quando vide che io tifavo Benvenuti, si mise a tenere per Mazzinghi. Quando lui si innamorò di Gimondi, lo umiliai con Motta. Penso che egli avesse in comune con il Gioânbrerafucarlo la voglia di schierasi sempre contro, come un bastian contrario; poi amavano tutti e due senza motivo il Genoa; avevano un’inclinazione per le cose d’un tempo, spesso perdenti ma “toujours pour la bonne cause”.


Papa, réquisitionné contre son gré dans l'armée de Mussolini


Papà era stato un mediano di sostanza e generosità. Tra il lavoro e la guerra, non ebbe l’occasione di sfondare ma giocò nel Vesinet, una squadra di C che raggiunse gli ottavi di finale della Coupe de France nel 1946, eliminando due squadre di A. Mi disse più volte che era molto amico di Emile Bongiorni, che giocava al Racing Parigi e morì a Superga “avec le Grand Torino”.

Ovviamente, mi avviò al gioco del calcio. In Francia imparavano a “bloccare” la palla, quando Papà già mi insegnava i controlli orientati e le deviazioni. Diventai un numero dieci di talento, giocai nella rappresentativa Under 17 con Santini, l’ex CT della Francia, e contro Lacombe, il consigliere del presidente del Lione. Fui scelto per la nazionale francese scolastica e giocai in C all’età di diciassette anni. Poi venne il ‘68 ed Edipo rovinò i miei rapporti con il Brera di Casa, lui il filocomunista; io “le soixante-huitard” amante di Bakounine, di Henri Miller e dei Beatles.

Papà non era all’altezza di Brera, ma era comunque uno storico del Calcio. Con lui il calcio sapeva di Iliade e di Odissea. Aveva la smania di recitare nomi stranieri come “mantra”. Ho in mente la sua voce rauca e l’elenco dei suo eroi: “Zamora”, “Planiçka”, “Andrade”, “Sarosi”, “Leonidas”, “Mortensen”, “Stanley Matthews”, “Schiaffino”… Raccontava aneddoti, come quando l’Italia sconfisse l’Ungheria a Budapest. Dei suoi amici ci andarono ma solo due tra loro ottennero un biglietto. Fu deciso di mandare palloni blu per aria ogni volta che gli Azzurri avrebbero segnato. Non c’era molto ottimismo visto che l’Italia aveva perso 7 a 1 qualche tempo prima. Invece, stupore, l’Italia vinse 5 a 0 e i due dentro non avevano comperato abbastanza palloni azzurri e furono costretti a mandare palloni rossi in un silenzio di cattedrale. Sembra una barzelletta: il Calcio di allora era soprattutto immaginato e il demonio delle statistiche non aveva partorito quell’ esercito di Bacconi che ti spiegano sul computer come si vince scientificamente.

Fino a qua – lo ammetto - non mi sono preoccupato del vero Giôann più di tanto, quello nato a San Zenone Po, l’8 settembre 1919. Dove sarebbe la necessaria correlazione tra il Gioânn Brera e il mio Gioânn di casa ?

L’ombelico c’è e si chiama “Peppin Meazza il Folber”.

Quando l’Italia campione del mondo 1934 si avvicinò al Mondiale francese di 1938, il mondo era in subbuglio; il primo semestre 1938 vede la disfatta dei Repubblicani spagnoli e l’Annessione dell’Austria da parte della Germania nazista.

L’approccio al quarto di finale Francia-Italia fu irrequieto.

Papà e i suoi compagni italiani erano antifascisti, ma i padroni di casa non lo volevano sapere; questi stronzi di “Spaghetti" erano il nemico interiore, gli alleati del Reich,. Quando gli Azzurri salutarono con la mano alzata, questo accadde il 13 luglio 1938, ci fu un boato tremendo: lazzi, fischi, bestemmie all’indirizzo dei “Ritals”[2]. “Non fu facile, mi disse Papà, eravamo di sinistra. Ma dall’altra parte c’era il cuore e l’orgoglio di essere italiani. Presero tre pere, les Français, Colaussi (1) e Piola (2). Ci fu un po’ di casino, qualche cazzotto, era un altro mondo.”

“Ils gagnent tout, ces Italiens” si lascerà scappare il Presidente francese dopo il secondo trionfo dei ragazzi di Vittorio Pozzo; e quello di Bartali al Tour e di Nearco all’Arc de Triomphe : “M. Lebrun era simpatico e sportivo, scrisse Brera in “A Bartali”, ma il riconoscimento sapeva di deprecazione a denti stretti: e anche questa era generosità, sebbene forse inconscia; perché la deprecazione di un francese esaltava due volte gli italiani di allora”.

Il mio Gioân avrebbe sottoscritto, aggiungendo:

“Anche penultimi, ma con i francesi dietro  !”

Quanta fierezza donavano le vittorie di Carnera, Coppi o Meazza ai poveri diavoli che lavoravano dodici ore a giorno sei giorni a settimana sotto gli insulti dei “padroni di casa”!

Quando uno si lascia andare a similitudini, ci vuole un po’ di cautela. Papà non fu allevato nella Bassa del Po. Nacque “sui nostri mont’ “ e crebbe “dans la Zone, à Paris”. Di fronte alla casetta che il mio nonno Lazzaro aveva costruita con quadrati di gesso, c’era un accampamento di marocchini, gente brava che ti salutava e ti invitava a mangiare l’agnello dopo il ramadan. Tra loro, francesi poveri, italiani provenienti da tutte le regioni, arabi del Maghreb, c’era sempre un pallone e spesso una bicicletta “fai-da-te”.

In tutti i “Moureura di Groupasseù”, figli e figlie, c’è una tendenza a diventare il capo del branco.  Non a caso il nonno Lazzaro prese la direzione di un gruppo di contadini e bastonò un paio di squadristi che volevano intimidire la gente di Groppallo. Non a caso Papà divenne capo cantiere a 25 anni. Non a caso due Morisi si rivoltarono contro il Fascismo e andarono lottare nelle Brigate Internazionali; uno dei due, Massimo, morì a Dachau in quanto anarchico.

Papà non citava Tacito e Sallustio come l’illustre Brera. Ma nemmeno la Bibbia, anche se per irridermi quando sonnecchiavo nella postura del “Penseur de Rodin” mi dava del “Sansone, che teneva un mandibola di asino”. Come Brera (forse) Papà si spacciava per filocomunista. Cioè, anarco-comunista. Cioè anarco-comuno-sindacalista. Cioè se stesso,  alla larga da quelli che egli chiamava come Rabelais “Les Moutons de Panurge”.

Al lavoro, Papa era autoritario, quasi un squadrista nelle maniere. Poi forzava i suoi dipendenti ad aprire le loro buste paghe e a fare richiami. Non sopportava lo sfruttamento e l’oppressione. Aveva messo su una cassa con la benedizione della sua ditta e degli accomandanti per mantenere la sua squadra in caso di emergenza. Amava stupire anche lui.

Anche se ci fossero dei Morisi a Filadelfia, Baltimora e nel Massachussets, Papà non usava parole inglesi come il ”Padre Lombardei”. Parlava il gergo dell’edilizia, un minestrone di algerino, spagnolo e slavo, con tanto di argot parigino. Come il Brera, il Moureura pestava contro i codardi e i fannulloni. Non sopportava “les briseurs de grève”. Molto cortese con la gente perbene, “très galant” con le donne, usava un linguaggio colorito all’indirizzo dei cretini di tutte le origini e tutte le età; ma se “Gioânbrerafucarlo” eccelleva nell’ironia scritta, Papà si destreggiava con meno garbo, passando in fretta dallo sfottò al pugno sul naso; bastava vedere i suoi occhi furibondi per raddolcirsi di fretta; si era allenato alla boxe con Charron, che quasi quasi mise il Grande Marcel Cerdan ko nel 1946: altro mondo, altre usanze. !

Peppino Cortinovis, le grand ami, le frère de Papa, champion de France des indépendants


Al di là di queste somiglianze (qualche), Papà adorava anche lui la metafora grecolatine. Gli piaceva alludere a Ulisse e Aiacce. Ercole era uno dei suoi pupilli. Ne ho la quasi certezza, tifò Baldini per il nome: Perdonatelo: leggere Omero, Euripide e Parmenide, non è molto comodo in vetta a un scaffale.

Se c’e un pezzo di Brera che io adoro da scrittore è quello su Coppi :

“La struttura morfologica di Coppi, se  permettete, sembra un invenzione della natura per completare il modestissimo estro meccanico della bicicletta. Coppi in azione non è più un uomo, del quale trascende sempre i limiti comuni. Coppi inarcata sul manubrio e un congegno superiore, una macchina di carne e ossa che stentiamo a riconoscerci simile…” Più avanti: “Il volto affilato e nervoso è un completamento della dinamica meravigliosa cui pure obbedisce il torace a carena. Le braccia sono due aleroni d’attacco… (…)”[3]

La descrizione mi pare emblematica di quei tempi. C’è il “fare corpo” con la macchina ; l’essere sfruttato e allo stesso tempo esaltato dalla meccanica. Il potere di seduzione di Gianni Brera viene in parte da lì, dal suo modo di descrivere la fisicità dei campioni, la loro bravura, la capacità di sublimare il dolore… Sentite cosa scrive Brera su Meazza “ragazzetto” :

“Peppin (…) era gracile e denutrito (…) È stato trovato debole di polmoni e accolto al Trotter… Egli era un esempio del nostro entozoo disastrato e tuttavia gagliardo…”

Poi su lo stesso morente :

“Sulla sua faccia affioravano vene di color rosso plumbeo. Gli occhi grandi, bovini, parevano costantemente assonnati…”[4]

Per lui, Gigi Riva era quasi un cavallo da corsa : “Fasci di muscoli guizzavano imperiosi fuor dell’impianto rozzo o quasi breve”[5]. “Meazza, aggiunge Brera, aveva le spallucce del polmonare. Coppi lo sterno carenato degli uccelli. Tu il cuore sornione (…). Di Baldini, so che ha lo stomaco del ciabattino. Io non ho proprio nulla, forse per questo non sono un campione.” [6]

Nemmeno Papa è diventato un campione. Aveva un busto forte, spalle larghe, sei litri di capacità polmonare; ma poca carne sulle ossa e delle gambe corte come se gli fossero mancate proteine da piccolo, come se egli fosse stato derubato di cinque centimetri e qualche chilo.

Non mi allargo: se uno guarda i ritratti dei campioni di quei tempi, sembrano più vecchi. Per la mancanza di sottilità nella scala dei grigi, certo ; ma anche per le privazioni, il dolore, le guerre… Sembravano affatto gatti morti di fame. Per i loro tifosi, vincere alla faccia del pianeta era dopamina, serotonina e vitamine allo stesso tempo!

“Mario, mi diceva Papà qualche giorno prima di morire, avessi visto Coppi! Quando camminava, pareva une povero ebreo uscito dai campi. Ma quando saliva sulla bici, allora non ce n’era per nessuno: volava, Mario, volava !”

E sì, a 82 anni, 47 anni dopo la sua ultima vittoria, il Gioânn di Casa lo vedeva volare, Coppi! Povero Papà; la mano destra gli tremava, un attacco progressivo di Parkinson. Lo sorprendevo che scriveva ai margini del giornale. Mi avvicinai un pomeriggio quando dormiva e capii. Allineava i vincitori del Tour de France dal 1903, le squadre campione del mondo dal 30, le squadre vincitrici della Serie A… Lottava contro il declino e la dimenticanza, provava a mantenere il cordone ombelicale con il suo passato. E i suoi campioni lo aiutavano.

Papa et moi, dans la cour du 157, à Nanterre


L’ho detto e lo ripeto. Diversamente dal vero Gioânn, Papà non conosceva Tacito e Sallustio; non era capace di riudire i lamenti di Lorca[7] ; non alludeva alla dialettica hegeliana [8]. O allora non me lo fece sapere.

Tuttavia anch’egli macinava parole in un esperanto burlesco che non sarebbe dispiaciuto a l’uomo di San Zenone. Intendiamoci: Papà non parlava il “Gadda spiegato al popolo”. Varcava i fiumi del passato, scavalcava i colli dei rimpianti, ma non trovava davanti a lui : “La  maestosa corrente del Po; le sorelle Oreadi; l’infelice Fetonte; i fantasiosi reci; l’indovina Manto fondatrice di Mantova nel pantano…”[9]

Invece avrebbe potuto dire : “Su de lì Ginetto, fa’ minga el bamba, che ti freddi i muscoli”[10].

Oppure imitare Gipo Viani quando Brera riporta che disse: “fuffuori casa gioggiocavamao sempre in diddiceci”[11].

Visto che egli adorava l’Ungheria e Puskas, sarebbe stato orgoglioso di scrivere come Brera: “S’indovinava la città estenuata sotto la Cittadella che fu dei turchi. Mangiamo giulyàs che non è affatto lo spezzatino o pörkör, besni una zupppa di carana alla vaccara…”[12]

Avrebbe riso sentendo l’aneddoto riportato da Marino Bartoletti:

“Con esa no puede entrar, senor”, gli disse un vigile vedendolo entrare una bottiglia di whisky in mano. “Que es proibido, el whisky o la rotella ?” Il vigile gli rispose : “es los mismo, senor”. Brera diede “di garganella alla fiaschetta, vuotandola fino all’ultima goccia” e disse : “No es lo mismo, pistolon !”

Ho letto che il copyright del termine “Padania” è di Brera, e che sopportava a mala pena il suo “nemico” il terrone “Napule Palombo” del Corriere dello Sport. Si dice che usava volentieri termini dubbi come ‘negher”. Egli credeva nel concetto di “biostoria”; coltivava un’ideologia vitalista sulla basa di valori sorti dalla terra… Lì, il mio Giânn e il Brera avrebbero forse litigato. Papà non avrebbe mai scritto sul modo con cui un compagno di Bera in gita a Budapest trattò gli tsingari che suonavano il violino prima di Inter-Vasas.

Se il Gianni Brera di San Zenone fu un uomo da pipa, Jean Morisi fumava cigarillos sul cantiere e dopo pranzo. Non aveva la classe del Gioânn ufficiale. Fumava un toscanello ogni tanto, ma non ebbe un borsello, li inghiottiva nelle tasche. Amavano tutti e due il vino pero. Papà non usava il glossario enologico che Brera predilige nel suo “Il vino che sorride”. Bevevano tuti e due, ma “Ubriacone, no” secondo Mina. Il nonno Lazzaro, invece, era un campione supermassimo: tracannava ettolitri di vino ordinario. Anche Papà, quando si metteva in lizza, poteva ingoiare bottiglioni interi. Si dice che Brera…

Papà non era razzista, forse perché cresciuto a Parigi, che era una Babele. Gli immigranti gli facevano tenerezza; si ricordava quando i “Mourera di Groupasseù” arrivarono in Francia. Portava da noi poveri tizi sfuggiti a Franco o alla guerra in Algeria.. Spesso mia Mamma Janine chiedeva per loro documenti e permessi, dichiarava le loro tasse. Papà accolse pure sul suo cantiere un nobile napoletano che si vantava di essere vissuto negli ambienti fascisti. Non era bravo, moltiplicava le “gaffes”, ma Papà lo ammirava per il coraggio di essersi rimesso in discussione e di essere puntuale la mattina. Avrebbe assunto Napule Palombo, in somma.

Papà era molto difficile da decifrare; non amava i preti ma si precipitò per aiutare l’amatissimo “Abbé Pierre” che dichiarò la guerra alla povertà durante il terribile inverno 1954… Poi Giovanni XXIII gli faceva tenerezza. Roba da Gioânbrerafucarlo, no ?

A questo punto delle mie divagazioni, mi pongo una domanda: come mai un Gioânn nato nel Val Nure, passato di contrabbando in Francia a due anni; preso a spallate dalla guerra e dal suo mestiere, poi deceduto a mille chilometri del suo covo possa aver assai in comune con un altro allevato nella pianura Padana, vissuto in Italia, colto e sapiente, un uomo famoso ?

Una piccola risposta, c’è l’avrei: sara perché gli italiani nati in quei tempi avevano dentro la ruvidezza del badare al sodo e i valori della terra madre. L’ho detto, da francofono, mi colpiscono le descrizioni di Brera quando esalta il fisico “da polmonare” di Meazza, il portamento di “airone carenato” di Coppi; oppure l’irruenza e la malizia contadina di Bartali… Si sente che la loro corporalità è prominente, che non uscivano della coscia di Giove come i moderni sportivi, puledri allevati a grano e a grana nelle scuderie delle società neo-capitaliste. Brera lo scrive e lo riscrive; i campionissimii sono un mix di carne e di virtù, di coraggio fisico e di “biocultura”. Il popolo non ama “les grands airs”; non sopporta i presuntuosi che provano ad affrancasi dalle loro radici. Ecco perché Papa e il suo illustro mentore disprezzevano Rivera o Antognoni. Ecco perché adoravano il resistere alle attache e colpire in contropiede… Piu Davide che non Goliade, si fidevano in San Catenaccio, il santo più scaltro dedicato a Eupalla. E l’ho capito dopo : in questo Papa era un discepolo del profeta di San Zenone.

Le fils unique de papa, déjà prêt au voyage...


Ora Papa non c’è più. Se ne andato il 22 giugno del 2002, cioè prima che io lo potessi invitare alla prima dell’ “Orfeo Baggio” all’Opera di Besançon (Figuratevi, egli aveva lasciato il Bel Paese da “buon da niênt” a due anni e settanta anni più tardi, suo figlio unico avrebbe scritto una pièce musicale sul Calcio: Calcio e Oper, un sogno italiano !).

Niente incidente stradale, niente borsetta con la pipa per Papà quando lo alzai e lo sdraiai sul letto. Era in mutande. Le sue gambe erano magre, il suo stomaco gonfio. Mi stupii la gabbia toracica “carenata” come quella di un uccello. Sulla sua fronte c’era la cicatrice causata dalle forcipi visto che sua Mamma non ebbe la forza di espellerlo da sola… il dottore abitava lontano… si mangiava poco, allora… partorì in un fenile.

Quando portarono via la salma di Papà, che chiamavano “Giuaneïn” lassù a Gropallo e “Gianetu” lagiù a Coletta, mi girai verso la casa che egli aveva eretto con il sudore e l’angoscia dell’indomani e pensai :

“Ora che te ne sei andando, che mi hai lasciato, Papà ?”

La risposta venne : la verve retorica, il coraggio di sostenere le mie idee, la diffidenza verso la folla, il potere di commuovermi, la volontà di stupire… la passione per lo sport, che induce una certa tenerezza per la gente semplice… ma soprattutto l’orgoglio di appartenere a un popolo dalla storia millenaria; tutto sommato, l’italianità !

Ora mi pongo la domanda : E se tutto questo fosse stato catalizzato, plasmato, sublimato dal grande Brera ?

E se codesto, dallo sport, avesse estratto una quintessenza dell’italianità ? Macché “Carlo Emilio Gadda spiegato al popolo”: Il popolo spiegato a se stesso invece. Sicché Brera fa parte del corteo glorioso degli eroi che aiutano gli italiani dell’estero a camminare a testa alta.

Un corteo glorioso fra cui metto ovviamente Cicerone, Giulio Cesare, Marco Polo, Dante Alighieri, Leonardo e compagni… Macchiavelli, Galileo, Verdi, Rossini, Garibaldi… De Sica, Fellini, Visconti, Risi, Pasolini, Umberto Eco e Saviano. Tanti altri fino a Roberto Baggio, il misterioso, l’universale; un Baggio dalle radici venete ma con un carisma globale. Un uomo che lotta contro la fame nel mondo in segreto e contro le ingiustizie urbi et orbi.

Mi sia perdonato il volo pindarico.

Il Gioânbrerafucarlo figlio del “Pater Padum” e il Moureura nato in Val Nur e seppellito nel Jura francese, non ci sono più.

Vissero quando il mondo non si stava ancora uniformandosi. Quando la gente, padri padroni e intellettuali compresi, parlavano u dialett’ e non la lingua svuotata e manipolata della pubblicità e dei mass media.

Leggete e rileggete: il Gioânbrerafucarlo, fu un pioniere del ladino universale, dell’esperanto galattico!

Usava tutte le parole del mondo in tutti i registri.

“Dal locale al globale e ritorno”, direbbero gli altermondialisti.

E in questo, l’altro Gioânn, mio Papà, fu un suo compare spontaneo.

Dai Senzabrera ai Senzapapà, c’è solo un passo.

FINE


[1] A caso, Napoleone e Annibalie sono citati nel “A Gino Bartali” di Brera (El Sitt)

[2] In Corsica, gli italiani erano definiti « pinssuti », in altre parti « spaghetti » o « mararonis ». A Parigi, i razzisti li insultavano al grido di « Ritals »

[3] Ritratto breve di Coppi (El sitt)

[4] Peppin’ Meazza era il Folber (El sitt)

[5] Lamento per Riva  (El sitt)

[6] Peppin’ Meazza era il Folber (El sitt)

[7] « Lamento per Riva – (El sitt)

[8] « San catenaccio in cima al mondo »  ???

[9] Invectiva a Pater Padum

[10] A Gino Bartali

[11] In Peppin’ Meazza Il Folber, a proposito di Gipo Viani

[12] Mazzola a Budapest

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